Due milioni di lettere dal 1955: l’Italia più autentica raccontata dai lettori
ROBERTO BELLATO, ANGELO CONTI
Forse neppure l’allora direttore de La Stampa Giulio De Benedetti – quando inventò «Specchio dei tempi», il 17 dicembre 1955, un sabato – immaginava che la sua creatura avrebbe avuto tanto successo. E che sarebbe diventata un fenomeno editoriale studiato dai sociologi, destinato a durare nel tempo. Fu un’intuizione coraggiosa e straordinaria per quegli anni in cui anche le firme dei giornalisti comparivano raramente in calce agli articoli. Nessun quotidiano aveva una rubrica simile.
Due milioni di lettere
Le prime due lettere trasmettevano il grido di dolore di un pensionato oppresso dal carovita e di un operaio, strangolato dalle tasse.Due temi tuttora di stringente attualità. Da quel giorno sono state inviate al giornale oltre due milioni di lettere, centodiecimila delle quali pubblicate. «Specchio dei tempi» («Il nostro fiore all’occhiello da cambiare ogni mattina», commentava con malcelato orgoglio De Benedetti) è diventato una libera tribuna ascoltata (e temuta) anche da ministri e amministratori della cosa pubblica. E ha contribuito ad arricchire il confronto di idee con comuni cittadini che segnalano ingiustizie, spesso suggerendo le soluzioni per porvi rimedio.
Fra tanti sconosciuti, anche nomi noti. Alcide De Gasperi accoglie l’appello di un profugo istriano lanciato dalla rubrica. Palmiro Togliatti dà indicazioni per evitare che l’amato parco nazionale di Cogne divenga preda del degrado. Primo Levi ci ammonisce che il perdono può essere preferibile alla vendetta. Macario intercede a favore dei suoi spettatori «puniti» da isole pedonali «realizzate con due pesi e due misure». Vittorio Pozzo si schiera con gli arbitri troppo spesso criticati. Pierre Carniti difende le conquiste sindacali in fabbrica. Armando Testa sostiene che anche un Re può far pubblicità a un vermouth «se è piemontese». Oreste Badellino scrive che «il dilagante disprezzo della lingua italiana va di pari passo con l’asinità».
Ma i temi più frequenti sono da sempre quelli più popolari: l’incertezza per la pensione, il timore di perdere il lavoro, la necessità di trasporti pubblici adeguati, la pretesa e il rispetto delle regole, l’efficienza e l’umanità degli ospedali, le difficoltà dell’integrazione, i dubbi sul futuro dei giovani. Accompagnati da un patrimonio di suggerimenti, proposte ed idee con cui gli amministratori pubblici sono obbligati a confrontarsi. Così, attraverso tutti questi contributi, giorno dopo giorno «Specchio del tempi» è diventata la rubrica più amata, destinataria non soltanto di proteste, proposte e speranze, ma anche testimone della generosità di tanti lettori che le hanno affidato nel tempo le loro donazioni per interventi di solidarietà in tutto il mondo. De Benedetti passava lunghe ore a scegliere le lettere da pubblicare passeggiando nei boschi della collina di Rosta, dove abitava, a pochi chilometri da Torino. Quando aveva deciso, aggiungeva un titoletto appropriato e la rubrica era pronta.
Ripercorrendo le migliaia di lettere pubblicate si scopre come siamo cambiati in questi sessant’anni. Soprattutto su temi di scottante attualità come l’immigrazione, l’omosessualità e i diritti civili. Anche se – al di là delle idee politiche, delle professioni e delle età – resta comunque intatto un comune sentimento di chi continua a credere in valori condivisi.
Social prima di Internet
«Specchio dei tempi» fu un’idea che precorreva i sentieri del giornalismo moderno, quello che piace a chi naviga su Internet. Perché oggi chi si informa vuole partecipare, dire la sua opinione e confrontarla con quella di altri. Oggi un centinaio di lettori scrive quotidianamente alla rubrica. Quasi la metà sceglie una e-mail, moltissimi intervengono con un post sul Forum presente nel sito de La Stampa o sulle pagine di Specchio sui social network. Ma qualcuno preferisce ancora usare carta e penna per affidare un pensiero al dibattito tra i lettori. Perché è questa la particolarità che contraddistingue la rubrica dalle tante altre ospitate dai quotidiani: chi scrive non si rivolge al direttore del giornale, ma a chi lo legge. Com’era nelle intenzioni di Giulio De Benedetti.